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ARCA DEL GUSTO

a cura di Fondazione Slow Food

Pappaluni

Pappaluni, o fagioli aspromontani, si indicano dei gustosi legumi che vengono coltivati nelle fasce medio-alte del massiccio del Parco Nazionale dell’Aspromonte. In questa zona i terreni e le acque sono ideali per la produzione di legumi che occupano un posto importante nella tradizione gastronomica locale. 
Esistono due tipi di pappaluni: una varietà bianca e di grandi dimensioni ed una invece colorata, marezzata e di dimensioni più ridotte.

I pappaluni si coltivano tra i 400 e 1200 metri, dove il microclima presente ne favorisce la crescita. Si seminano da marzo a maggio riponendo i semi a distanza di pochi centimetri all’interno di fossette nel terreno preparate precedentemente. La pianta è rampicante e può inoltre raggiungere i 3,5 metri di altezza: essendo molto robusta e pesante necessita di un qualche sostegno, come paletti e si evita l’uso delle canne, troppo leggere. La raccolta solitamente inizia ad agosto e si protrae fino ottobre. I pappaluni si raccolgono quando il baccello è secco, dopodiché questi vengono stesi al sole, decorticati e i fagioli conservati nei sacchi di canapa. 
I pappaluni colorati si presentano in varie sfumature: verde, nero, marrone, giallo ocra, viola o picchiettati da macchioline rossicce. Questa tipologia si usa soprattutto per preparare le zuppe, combinati con la borragine selvatica e nella pasta e fagioli aspromontana: con broccoli, patate, cotenna, carne di maiale e peperoncino fresco.

I pappaluni bianchi sono abbastanza grandi, dalla forma schiacciata, la lunghezza può raggiungere i 3,5 centimetri per un peso di massimo 3 grammi. Il sapore è particolarmente delicato con polpa carnosa e buccia sottile. Si prestano benissimo alla preparazione di contorni o minestre, anche asciutte o in abbinamento ad altre verdure.La produzione attuale di pappaluni è legata a piccoli produttori che li coltivano anche per il proprio consumo personale. È possibile reperire questa varietà di fagioli nei mercati locali o presso alcuni produttori.

Fagiolo poverello bianco

Presidio Slow Food

Fagiolo poverello bianco

Il fagiolo poverello bianco si coltiva da tempi molto antichi sui terreni irrigui di alcuni borghi montani della Calabria occidentale, nel Parco del Pollino. Ha semi grandi, ovoidali e buccia sottile, bianca, lucida, senza screziature. Facile alla cottura e delicato in bocca, richiede un ammollo di almeno 45 minuti.
Tradizionalmente si semina a postarelle entro la prima metà del mese di giugno. E’ un fagiolo rampicante: le piantine si aggrappano a paletti di castagno ricavate dai vicini boschi cedui. Le piante devono essere irrigate e il controllo delle erbe infestanti avviene manualmente o, in alcuni casi, con mezzi meccanici, mentre è vietato qualunque genere di diserbo chimico. I terreni si possono arricchire esclusivamente con l’impiego di letame ben maturo. La raccolta è manuale e avviene tra il mese di ottobre e l’inizio di novembre, quando i baccelli ben secchi si sistemano sui “cannizzi”, dove si lasciano essiccare ancora per qualche giorno. A questo punto vanno nei sacchi, per essere battuti, e poi sono sgranati a mano e ripuliti da eventualità impurità (sassolini, particelle di terreno, foglie).
Il fagiolo poverello è un elemento centrale della cultura agricola e gastronomica di quest’area. Può essere ingrediente di varie ricette (creme, minestroni, crostoni, insalate), ma il piatto più emblematico è una particolare pasta e fagioli preparata con i tubetti (pasta corta e liscia), olio extravergine (l’ideale è quello ricavato dalla cultivar dolce di Rossano, che fa parte del Presidio Slow Food), polvere di peperoni rossi e croccanti (la zafarana) e peperoncino piccante. La cottura più adatta al fagiolo poverello è quella sul fuoco, lentissima, nella pignatta di creta.

Stagionalità

La raccolta avviene tra Ottobre e inizio Novembre, il prodotto secco è reperibile tutto l’anno

Caciocavallo di Ciminà

Presidio Slow Food

Caciocavallo di Ciminà

Ciminà è un comune di 700 abitanti della Locride, il cui territorio ricade nel Parco Nazionale dell’Aspromonte. Il caciocavallo si produce in questa zona da tempi immemorabili. Nella Grecìa calabra, così viene definita l’area ellenofona che fa capo genericamente alla Bovesia, molti nomi di località hanno radici nella Grecia antica: il nome stesso di Ciminà deriva dal greco kyminà, ovvero luogo dove abbonda il cumino selvatico o ciminaia. La colonizzazione ellenica riguardò anche i Balcani si ritiene che queste terre siano state potentemente contaminate anche da influenze balcaniche. Com’è ormai certo, il caciocavallo trova infatti il suo antenato nel kaskaval, una pasta filata prodotta ancora oggi dalla Macedonia alle isole dell’Egeo, la cui origine ci porta direttamente alle popolazioni nomadi della steppa. Si fanno buoni caciocavalli in tutta la Calabria, o meglio in tutto il sud Italia, e la tecnica è più o meno la stessa per tutti, ma la differenza la fanno i pascoli, i climi, le mani dei casari. A Ciminà, ad esempio, il caciocavallo si fa a due testine, è un formaggio piccolo, allungato, caso unico nel panorama caseario, anche se non è citato espressamente con questo nome su nessuna pubblicazione di settore. Ma si lavora anche nella forma ovoidale classica. Il peso va da 400 grammi a 3 Kg. Questo formaggio ha un’altra particolarità: si coagula ancora il latte crudo, di vacca e a volte anche parzialmente di capra, quasi sempre con caglio naturale di capretto. Una volta rotta con lo spino la cagliata, che i pastori chiamano tuma, si formano coaguli grandi quanto una nocciola che si raccolgono e compattano, facendo fuoriuscire il siero. Questa massa viene lasciata fermentare anche più giorni e poi tagliata a fette e filata nell’acqua bollente. Infine si passano le forme nella salamoia per un giorno circa e si appendono poi ad asciugare a cavalcioni della tradizionale pertica.

Stagionalità

Il caciocavallo del Presidio si produce tutto l’anno, ma la massima produzione avviene da marzo a giugnoCaciocavallo di Ciminà

Presidio Slow Food

I produce tutto l’anno, ma la massima produzione avviene da marzo a giugno

Moscato al governo di Saracena

Presidio Slow Food

Moscato al governo di Saracena

Già nel Cinquecento i barili di Moscato al governo di Saracena erano imbarcati a Scalea per essere consegnati alla corte papale. Sulla tavola di Papa Pio IV il moscato al governo di Saracena non mancava mai e Guglielmo Sirleto, il cardinale calabrese Prefetto della Biblioteca Vaticana, ne era particolarmente ghiotto. Anche in tempi più recenti si trovano riferimenti precisi a questo vino in due resoconti del Grand Tour. Lo cita Norman Douglas nel 1915 nel suo libro “Old Calabria” dove scrive “…sorge il prosperoso paese di Saracena, famoso fin dai secoli passati per il suo moscato. Lo si ottiene dall’uva portata dai saraceni da Maskat”. Ma anche George Gissing in “By the Jonian sea” del 1901 ricorda ”(…) come cosa in pieno degna dell’antica Sibari un vino bianco, gradevole al palato, chiamato moscato di Saracena”.
Il moscato al governo di Saracena si produce vinificando uve di vitigni autoctoni, quali guarnaccia, malvasia, duraca e moscatello. Nei primi giorni di settembre, il moscatello e la duraca, raccolti al giusto punto di maturazione, sono appesi su graticci ombreggiati per circa un mese, per concentrarne, attraverso l’appassimento, zuccheri e aromi. Nella prima settimana di ottobre si vendemmiano le uve guarnaccia e malvasia e il mosto ottenuto è sottoposto a bollitura per ottenere una riduzione di circa un terzo del totale. Una volta raffreddato il mosto, comincia un’attenta selezione e una delicata pressatura manuale degli acini disidrati di moscatello e duraca (normalmente questa è un’operazione svolta dalle donne). L’uva appassita pressata viene immersa nel mosto concentrato e, grazie ai propri lieviti presenti sulle bucce, si attiva un percorso fermentativo naturale. La macerazione di circa sei mesi consente l’aromatizzazione del mosto.
Il risultato è un vino dal lucente color ambra, intensamente profumato: alle note resinose e aromatiche si uniscono aristocratici sentori di fichi secchi, frutta esotica, mandorle, datteri e miele. Al palato mantiene eleganza e finezza, lunga persistenza, e grande equilibrio tra dolcezza e acidità.

Stagionalità

La vendemmia si svolge da settembre a ottobre. Il prodotto è reperibile tutto l’anno.

Struncatura

La struncatura è una pasta tradizionale dell’area della Piana di Gioia Tauro che nel tempo è diventata patrimonio gastronomico e culturale di alcuni centri dell’Aspromonte. Si otteneva in passato lavorando i residui della molitura del grano e la crusca ramazzati da terra. Era un alimento povero, impastato dalle donne di casa e consumato dai ceti meno abbienti che per correggere o attenuare il grado di acidità la condivano con salse molto piccanti o con acciughe salate.
La sua produzione risale al XVIII secolo, quando l’area di Gioia Tauro e il suo porto si affermarono come grande centro di scambi, in particolare per l’olio, dove protagonisti erano molti mercanti amalfitani. Per motivi igienici, nell’800 fu proibita per l’alimentazione umana, ma continuò comunque ad esser venduta in alcune botteghe del posto, quasi come fosse merce di contrabbando.

Oggi alcuni pastifici artigianali la ripropongono in un formato lungo a linguine, lavorando semole di grano duro integrale e di segale (jiermanu). Le caratteristiche degli ingredienti e la trafilatura in bronzo la rendono piuttosto ruvida e grossolana, e quindi molto adatta a trattenere i condimenti, di colore scuro tendente al marroncino, con un certo grado di acidificazione. Si condisce con sughi a base di ingredienti semplici: olio, aglio, peperoncino, alici, olive.

Bergamotto

Il bergamotto è diffuso tra Roccella Jonica e Gioiosa Jonica, nei dintorni di Brancaleone, Bruzzano Zeffirio, Capo Spartivento (Bova e Melito Porto Salvo) e nelle località del Basso Ionio Reggino (provincia di Reggio Calabria). E’ un agrume singolare perché mai impiantato o duplicato altrove: agronomi e agricoltori hanno tentato, infatti, di produrre il bergamotto (Citrus bergàmia) in Sicilia, in Spagna, in Costa d’ Avorio, in California e persino nelle Isole Comore, ma inutilmente.

Simile ad un’arancia ma di colore dal verde al giallo, secondo la maturazione, ha buccia sottile e liscia e un peso che va dagli 80 ai 200 grammi. Si coltivano tre varietà: Femminello, a rami esili e frutti lisci, Castagnaro, più vigoroso, con frutti meno sferici, un po’ rugosi, e Fantastico (circa il 75% della produzione riguarda questa varietà). Il frutto contiene dai 10 ai 15 spicchi. Il suo fiore, la zàgara (dall’arabo zahara, cioè fiore), è formato da cinque petali bianchi profumatissimi. E’ di sapore acidulo, ha profumo intenso e viene utilizzato ampiamente nella cucina locale per insaporire piatti od aromatizzare altri prodotti.

Suino nero Calabrese

Il Nero Calabrese, contraddistinto da una crescita in peso piuttosto lenta (e in questa caratteristica va ricercata, probabilmente, la causa del suo abbandono), è particolarmente indicato per l’allevamento allo stato brado o semibrado, in quanto poco soggetto a malattie che normalmente attaccano i suini come bronchiti, guai muscolari e articolari e patologie enteriche. Le sue carni sono particolarmente adatte per la trasformazione, dove si ottengono ottimi risultati. Questa razza ha subito un forte decremento numerico a partire dagli anni ’70 e oggi rischia l’estinzione, nonostante abbia innumerevoli qualità, quali: elevata attitudine materna, forte vigore sessuale, rusticità, adattabilità al pascolo e ottima qualità delle carni. E’ ancora presente in provincia di Cosenza e nel parco nazionale della Sila.

Suino Nero d’Aspromonte

Il suino nero autentico brado della Calabria Alla fine degli anni ‘90 si contavano pochissimi capi nomadi di maiale nero d’Aspromonte e la specie sembrava destinata all’estinzione. La svolta arriva nel 1995: Monsignor Bregantini, vescovo di Locri-Gerace, fonda la Cooperativa Valle del Bonamico insieme ad un gruppo di giovani pastori di Platì e San Luca ed avvia così il definitivo recupero della razza.

Oggi l’antico suino nero pascola allo stato brado nel suo habitat di origine, l’Aspromonte, dove la natura dei boschi è impervia, incontaminata, vergine.La sua morfologia primordiale è rimasta immutata a testimoniare la purezza della specie: forte, rustico, possente, con due appendici pendule sotto la gola e, nell’esemplare maschio, una criniera.Si nutre liberamente di ghiande, castagne, radici, tuberi, funghi e degli altri frutti del sottobosco.

Tutte queste caratteristiche lo rendono diverso dagli altri maiali neri calabresi e si ritrovano nei profumi e nei sapori dei nostri prosciutti e salumi.Grazie all’alimentazione mista del Maiale Nero d’Aspromonte, la sua carne è ricchissima di acidi grassi essenziali, ideale per essere inclusa in tantissime diete

Nduja di Spilinga

Spilinga, una cittadina alle pendici del Monte Poro, è il centro di produzione più noto di un insaccato che è un simbolo della norcineria calabrese: la ‘Nduja.

L’origine di questo salume è controversa, potrebbe derivare dalla francese andouille, una salsiccia tradizionale fatta con interiora di suino e affumicata. Sembra che Gioacchino Murat, il re francese che governò Napoli per un breve periodo a inizio del XIX secolo, abbia donato andouilles ai Lazzari napoletani, per ingraziarseli. Altri invece ritengono che derivi dagli embutidos prodotti dagli spagnoli che occuparono queste terre nel XVI secolo e diffusero anche qui certamente il peperoncino importato dalle Americhe. La ‘Nduja ha molte somiglianze con la sobrassada, anche se potrebbe essere in realtà la ‘Nduja ad aver ispirato i norcini spagnoli.

E’ certo che la ‘Nduja nasce allo scopo di utilizzare le parti meno nobili e pregiate del maiale, era insomma un cibo povero. In passato era realizzata infatti prevalentemente con cotiche e frattaglie. Nel tempo la ricetta è un po’cambiata, si è ingentilita, e oggi si produce essenzialmente con tagli suini di seconda scelta (sottopancia, guanciale, rifilatura della spalla e della coscia). La carne va macinata a grana fine e possibilmente col coltello: un compito che storicamente era riservato alle donne. La concia contempla poco sale e molto peperoncino (circa 300 grammi per ogni chilo di carne), amalgamati con il grasso suino per dare morbidezza. L’abbondanza del peperoncino, date le proprietà antisettiche e antiossidanti della pianta, non rende necessario l’uso di conservanti. L’impasto viene lasciato riposare per diverse ore, poi insaccato nel budello cieco (questi insaccati dalla forma particolare si chiamano “orbe”) oppure nel crespone o muletta.
Le ‘Nduje erano poi affumicate con essenze resinose ed aromatiche per almeno dieci giorni; la stagionatura dura almeno un anno.

Il sapore della ‘Nduja è forte e piccante e, al primo assaggio, lascia senza fiato. Il peperoncino è infatti fondamentale per conferire alla ‘Nduja un sapore intenso ma non eccessivamente forte, che non deve coprire i sapori delle carni. Per produrre un’autentica ‘Nduja bisogna utilizzare peperoncini locali – la varietà migliore è la tri pizzi, ma si usa anche il peperoncino chiamato casalese – che qui si coltivano in abbondanza, ma in misura non sufficiente a coprire il fabbisogno dei norcini locali.
Storicamente queste antiche varietà di peperoncini erano coltivate in tutte le famiglie, anche sui terrazzi delle case, nei vasi. Una volta raccolti, con un ago si praticava un foro nel picciolo e, usando il comune filo per cucire, si formavano collane di peperoncini da appendere al sole ad asciugare. Ai primi dicembre, quando arrivava l’ “ora del maiale”, si staccavano e si macinavano per insaporire i salumi.

Oggi le coltivazioni sono in ripresa, stimolate dall’aumento della richiesta di ‘Nduja da parte del mercato nazionale e anche estero. La ‘Nduja si produce in tutti i paesi dell’area del Monte Poro e un gruppo di produttori ha avviato il processo per l’ottenimento di una denominazione europea. L’intento è tutelare la ricetta tradizionale e la zona tipica di produzione.

Per fare una buona ‘Nduja non basta però un buon peperoncino, occorre una carne di alta qualità, che deve provenire da maiali pesanti di età non inferiore a 14 mesi, la cui alimentazione naturale escluda categoricamente il siero di latte. Alcuni produttori locali utilizzano le carni di suini neri calabresi allevati semi-bradi o di incroci rustici locali e i risultati sono eccellenti.

La ‘Nduja si consuma semplicemente spalmata su crostini e bruschette, oppure si usa per insaporire sughi, condire pizze, accompagnare formaggi stagionati, ma anche per insaporire i piatti a base di legumi.

Pomodoro di Belmonte

Il belmonte è un pomodoro importato nei primi del Novecento dall’America dall’emigrante belmontese Guglielmo Mercurio. Il sapiente lavoro dei produttori locali ha fatto sì che questo ortaggio giungesse ai nostri giorni “in purezza” e che si formassero delle selezioni familiari.

A forma di cuore di bue, molto grande (può raggiungere il peso di un chilo e mezzo), colore rosa che vira al rosso a maturazione ultimata, il belmonte è venduto solo sul mercato locale e la sua distribuzione raramente supera i confini provinciali: ciò, al variare anche minimo della produzione, lo espone a forti oscillazioni di prezzo, a tutto svantaggio dei piccoli produttori. Alto appare il rischio che questa coltura tanto legata al territorio possa essere dimessa.

Tagliato a fette di grandi dimensioni veniva definito in passato la “carne dei poveri”.

Melanzana violetta di Longobardi

Milingiana violetta di Longobardi

La melanzana violetta di Longobardi è una coltivazione ben radicata nel piccolo borgo calabrese di Longobardi, ubicato sulle colline che si affacciano sul tirreno- cosentino. Partendo dalla costa il territorio sale velocemente di quota fino a raggiungere i 1541 metri: questa particolare conformazione territoriale ha avuto un particolare impatto sulla produzione e cultura alimentare coniugando difatti prodotti della pianura, della collina e della montagna. Ancora oggi questo territorio si contraddistingue per un elevato tasso di agro-biodiversità.

La melanzana violetta si caratterizza per avere una pianta erbacea annuale che può raggiungere il metro e mezzo di altezza. La coltivazione si effettua in verticale, utilizzando dei tutori in legno, ferro oppure spago. Le foglie sono di colore verde e prive di spine mentre i fiori si presentano piuttosto grandi e di colore violetto. Il frutto è di forma allungata e claviforme; la buccia è liscia, sottile e lucida di colore viola che sfuma verso il bianco vicino al calice. La polpa di colore bianco- verdastro è soda, non spugnosa, con poca acqua e pochi semi. La raccolta si effettua a mano dopo 60/90 giorni dal trapianto; intervenendo con alcune operazioni di potatura, il periodo di raccolta può allungarsi fino ai primi freddi invernali.

La melanzana violetta è molto usata in cucina ma viene apprezzata soprattutto come milingiana sutt’uagliu (melanzana sott’olio). La lavorazione inizia con la selezione delle melanzane mature, lavate e poi pelate; le fette vengono poste in un recipiente, salate e lasciate riposare ben coperte per circa 12 ore. Successivamente vengono strizzate e messe a riposare con dell’aceto per qualche ora. Di nuovo strizzate, si ripongono in un vasetto di vetro assieme all’olio e alle spezie.

Particolarmente apprezzata e ricercata per via delle ottime caratteristiche organolettiche, la melanzana violetta era coltivata in tutti gli orti di Longobardi ed era conosciuta anche oltre al mercato locale. Così come altri borghi calabresi, Longobardi ha visto un forte spopolamento che ha portato all’abbandono delle terre coltivate e al graduale ridimensionamento delle coltivazioni locali. Negli ultimi anni coltivatori, ristoratori ed altri protagonisti del panorama gastronomico locale stanno promuovendo e valorizzando la melanzana violetta che però necessita di progetti sostenibili evitando di perseguire sole logiche di profitto che danneggerebbero i piccoli coltivatori.